Abbiamo passato le nostre giornate con un centinaio di bambini tra i 3 e gli 11 anni. Ci hanno insegnato l’amore assoluto, quello che i più piccoli sono capaci di offrire e che aiuta a superare anche le situazioni più drammatiche
di Stefania Siciliani
Bahia, la terra del cacao, segnata da storie di fatiche e di amori, di violenze e altruismo, di ingenuità e fede. La terra dei santi cattolici mescolati agli spiriti delle divinità africane. Un posto in cui, come scrive Jorge Amado, «i lavoratori delle piantagioni recavano il vischio del cacao molle attaccato alla pianta dei piedi, come una spessa scorza che nessun’acqua al mondo avrebbe mai potuto lavare. Ma tutti, lavoratori, jagunços, colonnelli, avvocati, medici, commercianti ed esportatori, avevano il vischio del cacao attaccato all’anima, nel profondo del cuore». Il Brasile. Come ci hanno raccontato qui, quando Dio creò il mondo utilizzò tutti i colori e tutte le specie di piante e di animali a disposizione per dar vita al Brasile e, con ciò che gli era avanzato, procedere a creare le terre e i continenti restanti.
È in un remoto angolo di mondo che ci siamo sentite, una volta atterrate sul suolo dello stato di Bahia, dopo aver sorvolato il deserto del Sahara e oltrepassato l’Oceano, finendo nell’altro emisfero. Lì abbiamo trovato ad aspettarci le due persone che ci hanno introdotto in una nuova realtà e che ci sarebbero poi state a fianco durante la nostra esperienza, con la loro disponibilità e cordialità: Regina, la direttrice dell’asilo in cui saremmo andate a vivere la nostra esperienza, e il suo compagno di vita Alessandro.
Percorrendo la strada del cacao, che sale parallela alla costa e fitta di florida vegetazione tropicale, la nostra prima tappa è stata, a sorpresa, proprio l’asilo. Un’emozione fortissima: tutto era tappezzato dei disegni che i bambini avevano colorato e dedicato a noi, con tanto di firma. Non appena ci siamo affacciate, curiose e impazienti, alle loro aule, siamo state soffocate dai loro abbracci, e le nostre orecchie hanno iniziato ad abituarsi alle vocine sottili, che ogni giorno ci avrebbero chiamato “tia”, cioè “zia”. Un modo per dire il loro calore e insieme il bisogno d’affetto, fin dal momento dell’accoglienza. E così è stato ogni giorno: denso di emozioni, alimentate dal sorriso e dalla dolcezza dei bimbi.
Abbiamo passato la maggior parte del giorno con un centinaio di bambini tra i 3 e gli 11 anni, compresi quelli del doposcuola. Le attività erano abbastanza scandite durante l’arco della giornata, e spaziavano dal semplice star accanto a loro durante le lezioni, al giocare insieme in giardino, far loro la doccia, “coordinarli” nel mantenere la fila durante il pranzo, sempre a base della tipica fejoada (riso, carne e fagioli, con la farina di manioca che loro amano tanto), “ninnarli” poi in dormitorio per farli addormentare durante l’ora del riposino, e accompagnarli poi nelle altre loro attività, tra le quali in primis la capoeira, la danza-lotta afrobrasiliana cui vengono educati sin da piccolissimi. Non ci è nemmeno mancato di dover impartire lezioni di italiano, ovviamente non ai bambini. Loro, però, ci hanno insegnato l’amore, quello incondizionato che i più piccoli sono capaci di provare e offrire, e che lì abbiamo visto concretizzare anche da molti adulti, perché è l’unico modo per andare avanti e riuscire a superare anche le situazioni più drammatiche.
I momenti per noi più formativi e che ci hanno fatto davvero conoscere la realtà sono stati quelli in cui Regina ci portava a fare il quasi quotidiano giro delle famiglie, sulle nostre immancabili biciclette, sotto la pioggia del caldo inverno baiano, attraversando con fatica strade piene del fango rossiccio, o sotto il caldo delle giornate più soleggiate, lungo stradine che portavano al fiume, a volte circondate da avvoltoi. Ci siamo trovate davanti a situazioni impensabili per una società come la nostra, situazioni in cui il significato che noi attribuiamo a “famiglia” e “casa” è completamente ribaltato, se non inesistente. Da studentesse della facoltà di Medicina, ci è stata data l’opportunità di andare a conoscere anche il sistema sanitario di Canavieiras, in cui l’ospedale è gestito più dagli infermieri che dai medici, spesso assenti, e da anni si trova in una fase di stallo, in attesa di un’opera di ristrutturazione che sembra non arrivare mai. Numerosi sono anche i centri di prevenzione per malattie sessualmente trasmissibili, di vaccinazioni, di vigilanza sanitaria, impegnati nell’arduo e continuo tentativo di educare la popolazione anche alle minime attenzioni.
Insieme a questo, il Brasile ci ha offerto i paesaggi mozzafiato di Bahia, dalla foresta pluviale atlantica, patrimonio dell’Unesco, alle chilometriche spiagge bianche e dorate costellate di palme di cocco, dalle mangrovie piene di granchi alle vaste piantagioni di cacao e alle fazende, dalle strade in terra rossa battuta ai vivaci colori che non mancano mai neanche sulle facciate delle abitazioni più povere. «Dovunque io vada porto il Brasile con me – scriveva ancora Amado -, purtroppo non porto con me la farina di manioca, ogni giorno mi manca, a pranzo e a cena». Manca anche a noi, come quella terra e quei bambini.
* 22 anni, di Roccasecca (Fr), terzo anno di Tecniche di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, facoltà di Medicina e Chirurgia, collegio Ker Maria.